sabato 21 dicembre 2013

[Classifiche] Anno 2013: I Migliori Album


Eccoci dunque al primo appuntamento (ce ne saranno altri due) con le classifiche di fine anno.
Partiamo subito con i migliori album: come ogni anno è da premettere che si tratta di una classifica piuttosto variabile (difficile confrontare generi e percorsi diversi) e che tende a premiare i dischi che più sono stati capaci di ascolti e riascolti e di generare l'impressione di dischi da ricordare per la prossima annata.

I Migliori Album del 2013



  1. Arcade Fire - Reflektor
  2. James Blake - Overgrown
  3. Daughter - If You Leave
  4. London Grammar - If You Wait
  5. Vampire Weekend - ModernVampires of The Weekend
  6. Franz Ferdinand - Right Thoughts, Right Words, Right Action
  7. Massimo Volume - Aspettando i Barbari
  8. Baustelle - Fantasma
  9. Kveikur - Sigur Ros
  10. Daft Punk - Random Access Memories
Altri cinque dischi degni di nota:

giovedì 19 dicembre 2013

[Ascolti] King Krule - 6 Feet Beneath The Moon


Un diciannovenne inglese: negli ultimi anni non sono pochi i giovanissimi catapultati sulla scena internazionale con tanto interesse attorno nel momento del debutto.
Vedi anche James Blake e gli XX.
La fervida scena inglese ci presenta questa volta Archie Marshall, la cui voce (profonda, matura, intensa) stride quasi al cospetto delle fotografie che ritraggono un giovanissimo, pallido ragazzo dai capelli rossi.
E come suona 6 Feet Beneath the Moon? Un più che coeso album di 14 tracce (forse un pò troppe, ma non è la prima volta che si perdona l'esuberanza e l'eccesso al debutto di un giovanissimo) fatto di chitarra elettrica, occasionale batteria e tanta, tanta voce.
Perchè è un disco di cantautorato, quello di King Krule: solamente che sceglie la strada (non semplice in teoria) di essere un disco spoglio, riempito di parole e accordi di chitarra.
Una strada che è forza e debolezza: perchè se negli episodi migliori la formula funziona (Easy Easy) in alcuni casi è un pò priva di mordente.
La chiave passa dunque nelle mani di alcuni brani capaci di aggiungere un tocco di groove (non raramente vicino a ritmiche jazz) quali A Lizard State, Neptune Estate;  suona poi come un peccato la mancanza di Rock Bottom, perla di un precedente ep e che avrebbe meritato la presenza nel disco.
In definitiva non il grande disco dell'anno, ma un presupposto interessantissimo per il futuro, questo si.

sabato 14 dicembre 2013

[Ascolti] Babyshambles - Sequel To The Prequel


Curioso come un disco dei Babyshambles nemmeno troppi anni fa potesse suonare come un evento e ora venga ascoltato con una certa sufficienza.
Magari mentre si prepara un albero di Natale (vedi alla voce esperienze personali).
Ma è tutto giusto così: sono passati ormai dieci anni abbondanti da quella stagione di Inghilterra e chitarre, stagione che ha lasciato molto meno di quello che pensasse (meritasse?).
Fatto sta che siamo qui, alle porta dal Natale, con il terzo disco della band nata dalle ceneri dei Libertines, band tra l'altro rinnovato vista la dipartita di Adam Ficek (batterista e co-compositore) lo scorso anno.
Difficile non pensare quindi ad un album "solista" ampliato, ma pur sempre solista, di una personalità ingombrante come Pete Doherty.
Che sia vero o meno, alla (fondamentale) domanda "i Babyshambles sono ancora in grado di dire qualcosa?" si potrebbe rispondere in entrambe le maniere.
Se il percorso discografico di Doherty (e soci) non è piaciuto fino ad adesso, non c'è motivo per dirsi altro.
Se invece i suoni, l'attitudine e l'abilità melodica sono riconosciuti a chi canta, si può proseguire dicendo che il disco è tutto sommato piacevole da ascoltare.
Di fianco ai vari episodi "classici" emerge qualche cambiamento musicale, in particolare una maggiore attitudine ad una ritmica vicina al reggae (Cuckoo e Dr. No, entrambi tra i pezzi più piacevoli del lotto) e una maggiore qualità chitarristica rispetto al passato (Fall From Grace è una ballata mid-tempo capace di ridare lustro al passato).
Manca, è vero, una hit o presunta tale (come poteva essere Delivery nel precedente disco della band) ma non ci sono nemmeno particolari debolezze in un disco piacevole, capace di regalare un qualche apprezzabile quanto straniante effetto nostalgia.
Insomma, l'ascolto è una libera scelta ma un'oretta gradevole di buona musica si, i Babyshambles possono ancora regalarcela.

giovedì 12 dicembre 2013

Prossimi Appuntamenti Live: uno sguardo al 2014


In attesa (settimana prossima probabilmente) di stilare le classifiche di fine anno, diamo uno sguardo ai concerti del prossimo anno, visti anche i numerosissimi annunci di questi ultimi giorni.



Stephen Malkus And The Jicks

  • 23 Gennaio, Tunnel (Milano)
  • 24 Gennaio,  Covo (Bologna)
The Soft Moon
  • 30 Gennaio, Teatro lo Spazio (Roma)
  • 31 Gennaio, Plastic (Milano)
  • 1 Febbraio, Covo (Bologna)
Bullet For My Valentine
  • 13 Febbraio, Alcatraz (Milano)
Beady Eye
  • 15 Febbraio, Live Club (Trezzo Sull'Adda - Milano)
  • 16 Febbraio, Orion (Roma)
Maximo Park
  • 16 Febbraio, Tunnel (Milano)
Bill Callaghan
  • 18 Febbraio, Teatro Antoniano (Bologna)
Depeche Mode
  • 20 Febbraio, Forum di Assago (Milano)
  • 22 Febbraio, Unipol Arena (Bologna)
Moderat
  • 22 Febbraio, Magazzini Generali (Milano)
Savages
  • 24 Febbraio, Tunnel (Milano)
  • 25 Febbraio, Circolo degli Artisti (Roma)
  • 26 Febbraio, Lokomotiv (Bologna)
Of Montreal
  • 25 Febbraio, Bronson (Ravenna)
Babyshambles
  • 27 Febbraio, Alcatraz (Milano)
  • 28 Febbraio, Atlantico (Roma)
Fanfarlo
  • 3 Marzo, Lokomotiv (Bologna)
  • 4 Marzo, Tunnel (Milano)
Franz Ferdinand
  • 3 Aprile, Forum di Assago (Milano)
Rock In Idrho (Bologna) 30 Maggio - 2 Giugno
  • Iron Maiden, Biffy Clyro, Pixies, Queen Of The Stone Age, Ska P
Arcade Fire
  • 23 Giugno, Ippodromo Capannelle (Roma)
  • 24 Giugno, Castello di Villafranca (Verona)
The Black Keys
  • 8 Luglio, Ippodromo Capannelle (Roma)

lunedì 2 dicembre 2013

[Ascolti] Lily & Madeleine - Lily & Madeleine



Di tanto in tanto capita di scrivere, se si parla di arte o cultura, riguardo all'utilità di un disco/libro/film.
In termini di "è già stato fatto prima, nulla di nuovo".
Capita, insomma, di relegare l'esperimento o la novità su di un piano più elevato rispetto a chi fa un disco di mestiere, seguendo le regole, se vogliamo così chiamarle.
Sarebbe però un errore fare la stessa cosa con Lily e Madeline Jurkiewicz, sorelle intorno ai vent'anni di Indianapolis.
E sarebbe un errore o almeno una sottovalutazione quello di appiccicare con banalità l'etichetta di nuove First Aid Kit a queste due ragazze americane.
Non che sia del tutto sbagliato: le affinità musicali, di immagine e addirittura di parentela sono così forti che è difficile non portare la mente all'ottimo esordio delle due svedesi.

Quello che colpisce è però la qualità dei brani.
Pur tra echi di qualcosa di già sentito è difficile (sarà la temperatura) non lasciarsi coinvolgere da un disco che procede a velocità medio-bassa (Nothing But Time, I've Got Freedom però portano vicino al battimani) con una miscela banale (se si vuole) quanto riuscita di intrecci vocali, note di chitarra e piano.
Ad esempio l'uno-due iniziale, la delicatissima Sound Like Somewhere (con piacevoli orchestrazioni in sottofondo) e la ben più pop Devil We Know, non a caso tra i singoli estratti.
Una piccola nota di merito a Paradise, in chiusura di disco, brano di quasi sole voci sorrette da tre note di chitarra, a regalare una bellissima melodia.

Riuscire, da giovanissime, a fare un bel disco di quasi sole voci e accenni melodici, non è certo facile.
Il fatto che il duo, come ben sintetizza la copertina, sia probabilmente riuscito a trovare un'alchimia superiore alle singole parti ci regala uno dei più bei dischi di folk-pop di quest'anno.
Mica poco, per un esordio.

lunedì 25 novembre 2013

[Ascolti] Moderat - I I


Non sono i molti i dischi di elettronica (perlomeno pura, non contaminazioni) finiti recensiti in questo blog, o semplicemente ascoltati, come piace da queste parti, lontani dalle gelide polemiche del web.
Materia meno conosciuta di altre e per quanto le sonorità più ballabili piacciano, spesso un intero disco è un pò indigesto a chi scrive.
Non è un mettere le mani avanti, anzi, ma un dare onore al merito al secondo disco nato dalla collaborazione tra Apparat (Sasha Ring, Berlino) e il duo Modesektor (Gernot Bronsert e Sebastian Szary, anche qui Berlino).
Disco che diciamolo subito si muove su territori spesso sensuali e interessanti.
Dalla perla techno-pop (si può dire) di Bad Kingdom, primo singolo, basso acido in prima scena e un ottimo cantato a piantarsi in mente, si stendono undici tracce tra lo strumentale e non capaci di affascinare ascolto dopo ascolto.
La delicata Let In The Light, una intensa Theraphy capace di muoversi su ritmiche spezzate di grande impatto, una Gita dalle forti influeze hip-hop, il lungo viaggio di Milk, dieci minuti a ricordare un pò Star Guitar dei Chemical Brothers: questi sono i vertici maggiori di un disco che ha la capacità di essere fortemente ritmico quanto intensamente melodico.
Se si tratta di un raro caso di comunione di intenti tra due entità musicali (e tre artisti) è ambizioso da dire ma perfettamente in linea con il risultato, piuttosto buono.
Insomma, promosso: uno dei dischi da ricordare quest'anno.

venerdì 22 novembre 2013

[Ascolti] Jake Bugg - Sangri La



Si potrebbe, volendo, rinfacciare l'uscita di questo disco, a Jake Bugg.
Nel senso temporale, perchè l'esordio del giovanissimo ragazzo di Nottingham (ancora 19 anni) è avvenuto un annetto fa, con tante attese intorno, parecchio successo e numerose partecipazioni a festival e live di un certo livello.
Si potrebbe dunque pensare che avendo 18 o 19 anni sarebbe cosa buona e giusta riprendere fiato, abituarsi ad un ingresso così precoce (e dalla porta principale) a certi palcoscenici.
Una certa attenzione a non bruciarsi, insomma.

Invece tra un tour e l'altro il nostro ragazzo butta giù altre dodici tracce e la fa uscire.
E qua diciamo, ancora prima del giudizio, che è una scelta apprezzabile, quella di scrivere subito un altro disco.
La bulimia creativa dei diciotto o venti anni non è un fenomeno inusuale (chi si ricorda di Bright Eyes, uno che a vent'anni aveva già avuto tre gruppi, scritto due album e svariate cassette poi raccolte in un terzo?) e la sincerità del disco ne prova la totale innocenza.

E', infatti, semplicemente un altro disco di canzoni, questo Sangri-La.
Mediamente riuscito, piuttosto piacevole, non sconvolgente.

Ma capace di aprirsi più che bene con There's a Beast And We All Feed It, capace di ricordare (è un complimento) Lighting Bolt, primo gioiellino scritto da Bugg.
E di proseguire (tendenza a maggiore elettricità rispetto all'esordio confermata) Slumville Sunrise, potente e in grado di sviscerare tutta l'abilità alla chitarra del cantante.
La prima fermata su ritmi lenti è una delle migliori, con Me And You (chi ha detto anni sessanta, vinile e hippie?) a rassicurarci definitivamente di un disco non scritto di fretta ma anzi di una capacità autoriale immutata se non leggermente accresciuta.
Le sonorità sono sempre quelle di un cantautorato sporcato di country, ora maggiormente folk, ora più rock.

C'è, infine, più band, in questo disco, come dimostra la più che riuscita (siamo in fondo) Simple Pleasure, brano insolitamente più lungo e complesso che fa pensare (e' un auspicio) ad uno spettro musicale e vocale pronto ad espandersi ulteriormente in un prossimo futuro.

Insomma, Jake Bugg, è il secondo centro e la capacità di scrivere c'è tutta.
Il futuro è lì davanti.


lunedì 18 novembre 2013

[Visioni] Serie Tv: Masters of Sex



Curioso che Showtime sia riuscita a confezionare il suo prodotto più pulito ed impeccabile con Masters Of Sex.
Il network americano, infatti, aspira da sempre agli onori meritati da Hbo, per le sue serie tv.
E non è che a Showtime siano mancati i successi: tutt'altro, se si pensa a Homeland, Californication, Dexter, I Tudors, Shameless, The Big C.
Però, escludendo gli ultimi due citati (il primo ancora in forma, il secondo da poco concluso) in molti casi il tratto distintivo delle serie del canale era quello dell'esagerazione, della ripetizione, delle grandi idee che stagione dopo stagione si perdevano, della violenza e della sessualità esibite come marchio più che come tematica.
Insomma, diciamolo in altre parole, l'idea che Showtime facesse Masters of Sex, ovvero la storia di Masters And Johnson, pionieri della ricerca sulla sessualità umana, poteva facilmente fare presupporre il rischio di tanti corpi svestiti ed una certa superficialità nella trama.
Che invece è la storia dell'abbattimento di molti tabù, dell'unica parte della fisiologia umana poco studiata fino al dopoguerra, della difficoltà di un approccio inevitabilmente particolare.
Perchè per studiare il sesso, in maniera scientifica, s'intende, ci sono voluti i volontari, le misurazioni, gli esperimenti.
E se per tutte le altre componenti umane non ci si è mai posti dubbi morali, su questo argomento miti e resistenze si sono sprecati (con la motivazione di base che per studiare questo aspetto sia necessaria quella certa perversione del guardare o curiosare nell'intimità altrui).

Questo era l'obiettivo della serie e, poco dopo la metà della prima stagione si può azzardare un giudizio più che positivo.
Master of Sex si cala agevolmente negli  anni cinquanta, costruisce un protagonista (Williams Masters) dalle grandi intuizioni e abilità mediche quanto dalle enorme problematiche di relazione personali, un uomo che pare rifugiato nella scienza per non affrontare la (propria) realtà.
Dopo una grande carriera come ginecologo, arriva a cercare di iniziare un percorso a cui è da sempre interessato, lo studio della sessualità.
Trova in Virginia Johnson una segretaria (prima) e una collega (poi) capace di guardare con mente aperta, con dedizione e occhio esperto alle tematiche da affrontare.
E piano piano trova soprattutto una mente affine, al contrario di Libby, la moglie, con cui vive fondamentalmente un matrimonio teso e inquieto per la mancanza di un figlio.

Che sia un caso o meno, il fatto che a scrivere la serie sia una donna ci consegna due grandi figure femminili, da Libby (in qualche modo una perfetta moglie, con la morale degli anni cinquanta) fino e soprattutto a Virginia (una meravigliosa Lizzy Caplan), capace di essere donna, madre, ex moglie e via via sempre più esperta di sessuologia, con dignità senza pari in tutti questi ruoli.

Ed è qui il merito della serie: l'avvio delle sperimentazioni, la vita quotidiana dei protagonisti e degli personaggi di contorno, il ritmo lento e rilassato, l'analisi dell'amore e della passione senza dare mai la sensazione di una esibizione di corpi vestiti (e non), la capacità di osservare la sessualità (repressa, eterosessuale, omosessuale, giovanile e in età matura) a trecentosessanta gradi, con garbo e intelligenza.
L'ottima chimica dei due protagonisti è quindi solo la ciliegina sulla torta di un'ottima (fino ad ora) stagione, in pieno stile drama (e non come si diceva spesso accade in Showtime e cioè Dramedy).
Forse, la migliore nuova serie della stagione (insieme ad un sorprendente e molto divertito Sleepy Hollow).


giovedì 14 novembre 2013

[Ascolti] London Grammar - If You Wait



Di tanto in tanto, arrivano quei dischi.
Che, s'intende, non rivoluzionano nulla.
Ma semplicemente sono delle gemme.
E' questa l'immediata sensazione che si prova con If You Wait, primo disco dei London Grammar, trio londinese che pure suona insieme dal 2009.
Non un anno a caso: nel 2009, a Londra e dintorni escono due esordi destinati a lasciare il segno.
Il primo è un quartetto giovanissimo, gli XX, il secondo è quello di Florence And The Machine.
Sia il caso (o no) ma questi altrettanto giovani ragazzi si permettono di assimilare entrambe le lezioni ed mischiarle in undici brani uno più bello dell'altro.

Difficile non notare, di primo impatto, la voce di lei, Hannah Reid, imponente, profondissima, cosi vicina alla ben più famosa rossa inflese già citata.
Sotto, elementi di minimalismo sonoro, un tappeto che si stende ad accompagnare, esaltare, approfondire.
La ritmica spesso in odore di trip-hop, alcune orchestrazioni ad ampliare i momenti più intensi, regalando di frequente crescendo emotivi che ricordano un altro gruppo dalle simili sonorità, un altro esordio di questo 2013, ovvero i Daughter (che curiosamente chiamano il disco If You Leave).

Insomma tutto bene?
In buona sostanza si.
Come non innamorarsi all'istante dei due singoli Strong e  (in particolare) Wasting My Young Hears?.
O dell'elegantissima cover di Nightcall (Kavinsky, dalla ormai di culto colonna sonora di Drive) che mostra una già insospettabile capacità di fare proprio un brano ben diverso e renderlo in linea con un album che è ben prodotto, privo di riempitivi e piace al primo ascolto, senza se e senza ma.

Per cui un applauso, un arrivederci a prestissimo dal vivo e una lunga carriera, se queste sono le premesse.

domenica 10 novembre 2013

[Ascolti] Half Moon Run - Dark Eyes


Un quartetto canadese alla lenta conquista del mondo.
Titolo forse esagerato, anzi sicuramente esagerato ma indicativo di una promessa importante per il futuro.
Perchè il Canada sta da anni regalando parecchie soddisfazioni musicali e l'ultima in ordine cronologico è quella degli Half Moon Run, band nata un pò casualmente, da qualche annuncio su Craiglist, che dopo vari assestamente pare avere trovato la propria idea musicale, dando alle stampe il proprio esordio.

E Dark Eyes è un disco bello.
Una specie di onesto e emozionante incrocio tra le armonie vocali dei Fleet Foxes e l'approccio ad un complesso rock vicino (specie nelle sezione ritmica) ai Local Natives, si dispiega lungo undici brani di elevata qualità, dove è difficile scegliere un momento migliore (ed è un complimento, specie per un esordio).
Non male ad esempio Judgement, un brano che riusciva, per chi se li ricorda, ai primi Starsailor, un mezzo classico Full Circle, brano di discreto successo sul web grazie anche ad un paio di pubblicità, intensa e riuscita No More Losing At War, dove c'è tanto brit-pop degli anni novanta.
Influenze disparate è vero, ma se (è chiaro) non c'è nessuna rivoluzione stilistica in Dark Eyes, non si può negare agli Half Moon Run la riuscita di un buonissimo pugno di canzoni.
Da tenere nel radar.

sabato 2 novembre 2013

[Ascolti] Arcade Fire - Reflektor



Tra le cose che ricorderemo (musicalmente, s'intende) di questo inizio di millennio, ci sarà la parabola degli Arcade Fire.
Una storia finora così pura.
Un esordio sentito ed emozionante (vogliamo chiamarlo capolavoro, certo) un successo di puro passaparola, che ha portato il disco dalle poche copie stampate in Canada alla distribuzione mondiale.
Se ne parlò letteralmente per mesi.
Le conferme di Neon Bible (il disco intimista, la conferma del talento melodico e corale) e The Suburbs (il primo tentativo di diventare band rock a tutto tondo, un suono capace di allargarsi in più direzioni) hanno portato ad una espansione di pubblico impensabile.
Così siamo ad oggi, dove Reflektor ha seguito la stessa storia mediatica del disco dei Daft Punk: l'attesa collettiva, i singoli estratti, concerti sotto mentite spoglie in patria, informazioni costanti capaci di generare un'attesa spasmodica.

Poi Reflektor si è rivelato.
Due i temi fondamentali di cui si parla (e sono in realtà lo stesso): la collaborazione in cabina di produzione di James Murphy (Lcd Soundsystem) e il viaggio del gruppo nella terra nativa di Reginè, Haiti, facendo nascere la voglia di un disco ritmico.

Ma prima ancora del "disco ballabile" della band canadese, bisogna premettere che il disco è molto di più.
Un doppio album, settanta abbondanti minuti di musica in cui la band, lo diciamo da subito, devia dalla sua traiettoria standard e segna il suo quarto centro consecutivo.
Perchè Reflektor, ascolto dopo ascolto, si dimostra disco solido, intenso, diverso eppure profondamente arcadefireiano.

Il primo disco, che si potrebbe chiamare quello della disco-rock band.
Parte in quinta, con Reflektor, primo singolo che odora di suono Dfa in ogni poro, traccia lunga, lunghissima, sette minuti e mezzo di esplorazioni disco, che pensi sia (come si è detto) un pò troppo allungata fino a che (minuto 5.25) si esibisce in una melodia che ti si pianta in mente in tre secondi e finisce in un epico finale che non vediamo l'ora di sentire dal vivo.
Poi: We Exist, dove si introduce l'elemento che non ti aspetti: la componente rock.
We Exist è chitarre e un basso profondissimo in sottofondo e compone un mini ciclo (non cronologico) registrato con pure sonorità da live band che comprende Normal Person (forse il brano più aggressivo mai scritto dalla band) e You Already Know, divertito brano quasi sixties, che segue subito dopo.
Poi ci sono le suggestioni: Here Comes The Time (Caraibi e Vampire Weekend protagonisti, tra i picchi del disco) la psichedelia di FlashBulb Eyes e l'ultimo brano, Joan Of Arc, cavalcata dove sentiamo finalmente Regine in parte alla voce e che conclude ad altissimo livello il primo disco.

Se sembra che ne stiamo parlando bene, aggiungiamo che è il secondo disco a fare il salto di qualità.
Quattro brani filati a stordire le orecchie di puro piacere: Awful Sound si accende minuto dopo minuto di quella intensità drammatica propria della band, It's Never Over riporta la coralità della band in primo piano (qualcosa di No Cars Go), Porno è un originalissimo e divertito gioco di sintetizzatori anni ottanta su cui Win Butler canta bene come forse non gli era mai riuscito.
E poi, infine Afterlife, che è il regalo finale della band, il brano capace di chiudere il cerchio, puri Arcade Fire, un brano che speri solo non finisca, inserendo ritmo, coralità e melodie, frullati in sei minuti in cui, giunti (quasi) a fine disco, pensi che si, è un altro capolavoro.

Sulla lenta e dilatata Supersimmetry, brano che sfuma in bordate di suoni elettronici finisce l'ascolto.

In conclusione (siamo già stati prolissi) Reflektor è il coraggioso passo in avanti di una band capace (ce ne stupiamo nuovamente) di affrontare qualsiasi ispirazione e idea musicale, riuscendo a mantenere quell'intensità, quel talento melodico che hanno reso la band un prodigio unico e (al quarto album è ora di dirlo) una delle band più memorabili degli ultimi anni.
Non resta che l'appuntamento live.

lunedì 28 ottobre 2013

[Visioni] La Vita Di Adele



Un inteso, intensissimo primo piano.
Questo è la vita di Adele, opera quinta di Abdellatif Kechiche (La Schivata, Cous Cous, Venere Nera) e vincitore quest'anno del Festival di Cannes.
Non solo: film a cui è seguita una grande coda di polemiche, per le condizioni definite massacranti sul set, per le scene piuttosto esplicite e per il tema trattato.

La vita di Adele nasce da una graphic novel (Il blu è un colore caldo) che tratteggia l'insicurezza di Adele, giovane quindicenne (all'inizio del film) in cerca della propria identità.
Non i soliti disturbi adolescenziali, Adele si sente sbagliata nel classico canovaccio di amicizie e relazioni con i ragazzi, disagio che culmina con la fuga dalla prima storia seria, quella con Thomas.
Il primo rapporto sessuale è la causa della fine della storia stessa, con il volto smarrito di Adele che si chiede cosa ci facesse lì.
Poco dopo prende il via il percorso che la porterà a conoscere e ad amare Emma.
La Vita di Adele è un film in un certo senso difficile: esibisce con una (compiaciuta?) insistenza ogni momento della ragazza (una assolutamente strepitosa Adele Exarchopoulos), lungo tre ore dove ben raramente la camera di stacca dal primo piano della ragazza, consegnandoci un mondo visto con i suoi occhi (e i soli suoi) e rendendo alla perfezione quella sensazione di smarrimento (prima) felicità ed estasi (poi) che si trova a dover affrontare la protagonista.
Che costruisce con Emma, sbarazzina, più adulta di qualche anno, dai disordinati capelli blu, la propria storia d'amore, su cui è bene dirlo, il regista non censura nulla, esibendosi anzi in più d'una sequenza di lunga durata (la prima poi...) che celano ben poco alla vista.

Difficile dire (siamo alle solite, visto l'argomento) se vi sia solo del voyerismo gratuito o se l'intento sia quello di tutto il film e cioè di mostrare una adolescenza e un percorso sulla propria identità sessuale senza nascondersi o edulcorare.

In un racconto in cui gli adulti sono famiglie di passaggio (aperta quella di Emma, chiusa quella di Adele, anche se viene stralciato via in parte il tema rispetto all'opera originale) e la difficoltà nel rapportarsi con gli altri è meravigliosamente delineata (le insicurezze, le sofferenze di Adele di fronte alla critiche intorno a lei sono assolutamente credibili) sono Adele ed Emma a (cercare di) crescere, e senza nulla svelare sull'ultima parte, a traghettarsi nell'età adulta con ogni difficoltà possibile (e realistica, per una volta).

Difficile, ad una prima visione dare un giudizio finale.
Ma siamo sicuramente di fronte ad uno dei film più interessanti dell'anno, pieno di coraggio, recitato in maniera assolutamente credibile dalle due protagonista (in particolare, si è detto, da Adele che in originale si chiamava Clementine, a compimento di un completo assorbimento, quasi fusione, tra attrice e personaggio narrato) e che riesce a mantenere un ritmo perfetto nonostante le debordanti tre ore di durata.
E anzi (il regista avrebbe voluto, le attrici pare si rifiutino) lascia in qualche modo la sensazione che non si sia detto tutto (vedi il testo originale).
E se si finisce pensando "vorrei ancora qualcosa in più" di un film così intenso, forte e lungo, il giudizio non può che essere assolutamente positivo.



sabato 26 ottobre 2013

[Ascolti] Moby - Innocents


A parte lo sconcertante fatto che tra meno di due anni Moby compirà cinquanta anni.
A parte questo va tutto bene.
Perchè Innocents, undicesimo album in studio del cosiddetto folletto di New York, è un gran bel disco.
E fa piacere che vi sia ancora vitalità in un personaggio attivo da trent'anni, capace in carriera di ben due momenti di gloria, il primo ad inizio anni novanta, nella fase techno ed il secondo più noto alle masse con l'album Play, a cavallo del millennio, da cui sono stati estratti più o meno tutti i brani per pubblicità o colonne sonore, regalando numeri ed un successo da capogiro.
Poi un altro momento traballante perchè se il successivo 18 ricalcava la fortunata formula di Play, negli ultimi anni Moby ha vissuto di rendita, veleggiando su territori tra i più disparati, con occasionali intuizioni di classe ma scarsa costanza.
Insomma, pareva l'inizio di un declino (ben gestito).
Invece, eccoci qui.
Con un disco che saggiamente si ferma a 12 brani (mentre in passato sono spesso stati 15, 16 o addirittura 18 come nell'album già citato), introdotto strumentalmente da Everythings That Rises (invero un pò lunga ma ben riuscita) e chiuso da The Dogs (l'unico brano con la voce di Moby stesso), lunghissimo e emozionante brano finale.
Nel mezzo il meglio, a partire da A Case of Shame, che sembra un brano di quella Adele che ha spopolato negli anni scorsi in radio: la voce è invece di Cold Specks ed è difficile non concedere al brano il merito di un futuro successo, semplicemente perfetto nel suo essere il meglio che Moby può offrire, ovvero quel pop venato di elettronica, leggermente sporcato di riuscite orchestrazioni (ricordiamo?).
Ancora, subito dopo, Almost Home che (proseguiamo per paragoni, o complimenti che dir si voglia) pare una traccia estratta dall'ultimo Bon Iver, e poco dopo The Perfect Life,  un brano dall'anima profondamente gospel dove sotto pare di sentire Tender dei Blur, sopra Edward Sharpe And The Magnetic Zero e invece c'è pure Wayne Coyne, voce dei Flaming Lips.
A metà disco The Last Day, in territorio trip-hop, con un campionamento che fa tantissimo il Play dei giorni migliori.

Il migliore pregio di Innocents sta nella varietà (ad esempio l'uno-due A Long Time - Saints sposta le battute in territori quasi ballabili) ed ha il pregio di riservare per il quasi finale l'incontro con sua maestà Mark Lanegan, che si, è vero, non è il brano migliore del lotto, ma quando si dice che quella voce sarebbe sensuale anche leggendo un elenco del telefono, beh, non si ha torto.

Tutto bene dunque? In buona sostanza, si.
Perchè ci sono parecchie perle, alcuni buoni brani e nessun riempitivo, in un disco emozionante, riuscito e maturo.
Il migliore dopo Play e non così lontano, a guardarci bene: bentornato Moby.

Streaming Integrale dell'album

mercoledì 23 ottobre 2013

[Ascolti] Anna Calvi - One Breath


Difficile, sempre, scrivere i secondi album.
Difficile poi se si è Anna Calvi, autrice inglese capace di imporsi all'inizio del 2011 con il proprio primo disco, intensissimo e oscuro viaggio in una dimensione personalissima, magari non sempre del tutto a fuoco ma di indubbia capacità di affascinare.
Un album che a dirla tutta si porta una certa pesantezza all'ascolto odierno.
Ma siamo a One Breath.
Che è (primo merito) un passo avanti.
Perchè lo spettro emozionale si amplia non poco, le tastiere fanno capolino (insieme ad una orchestrazione piuttosto importante): non c'è più Anna e chitarra, insomma.
Forse nei primi due brani, piazzati furbescamente ad inizio disco, con una Eliza primo estratto già sentito a darci per la prima volta la dimensione di una potenzialità quasi radiofonica per la cantante.
Che si conferma subito dopo, con Piece By Piece: si entra in una dimensione quasi elettronica, riuscita solo in parte (o perlomeno straniante).
Inevitabile dire che One Breath vive di folate, strepitosa ad esempio Sing To Me, dove ci sono quasi solo archi e la voce della Calvi, una volta di più capace di incredibile intensità. (e un velato omaggio all'intro di Pyramid Song dei Radiohead?)
Difficile invece capire un brano violento come Love of My Life, fatto di bordate elettriche e incastonato tra altri due ottimi momenti, la traccia che dà il titolo al disco e Carry Me Over, brano più ambizioso e compiuto della cantautrice, che si snoda lungo un meraviglioso percorso strumentale nella seconda parte, prima di riaccogliere la voce nei suoi momenti finali.

Insomma: luci ed ombre, ma una promozione decisa, per il coraggio mostrato nel ampliare il proprio suono e per alcuni momenti di tale intensità (e rarità) che possono valere da soli il prezzo del biglietto.
Il futuro è tutto suo.


domenica 20 ottobre 2013

[Ascolti] Massimo Volume - Aspettando i Barbari



Pur essendo (caso raro) un testo non uscito dalla penna del gruppo, c'è qualcosa di programmatico in Dio Delle Zecche, brano di apertura di Aspettando i Barbari: quando Clementi declama
"vince chi resiste / alle tentazioni / chi cerca di non smarrire / il senso / la direzione".
Sesto disco in carriera e secondo di questa seconda nuova fase discografica, la band di origine bolognese continua un percorso chiaro e intrapreso ormai a metà degli anni novanta.
Come è noto, percorso più o meno ignorato se non da un piccolo pubblico e da una certa critica: quando poi viene annunciata una reunion live nel 2008 ad aspettare il gruppo vi era una folta schiera di vecchi e giovani fan pronti a rendere omaggio ad una delle più straordinarie band della nostra storia musicale, diventata nel frattempo un piccolo culto.

Se Cattive Abitudini ci aveva fatto pensare "loro sono ancora i formissima e stavolta siamo pronti a coglierli in diretta" questa volta il ragionamento è semplice e naturale.
I Massimo Volume non innovano, semplicemente scrivono un nuovo capitolo di una discografia di altissima qualità, dando alle stampe un disco che suona (se possibile) ancor più teso, ruvido, nervoso.
Non c'è però urgenza musicale, solo una sensazione di maturità e sicurezza che forse mai la band aveva potuto provare.
In altre parole, sanno che ora c'è un grande pubblico dietro e ci dicono "ecco chi siamo, oggi, senza filtri".

Così in dieci brani passiamo da un omaggio sentito e riuscito a Vic Chesnutt (ricordati di Chesnutt /
quando il suono stride / ricordati di Chesnutt / quando la linea trema / ricordati di Chesnutt / una corona di spine / poggiata sul palco / tra la chitarra /e le spie) alle consuete osservazioni asettiche di una realtà esterna (La Notte) fino al teso sguardo all'esterno che ci spaventa (gli uccelli
sul tetto / la notte / insidiano / i confini / del nostro / mondo perfetto).

Fino a "Da Dove sono Stato" lascito che sembra un voler stabilire un prima e un dopo e si chiude in un tono assolutistico  che riesce facile immaginarsi come intensa chiusura live in un bagno di folla (di fronte / a tutti voi / io oggi / umilmente / mi inchino / per avermi/ fatto sentire vivo / e reso grazia / al vostro incanto / vi lascio / e corro incontro / ai giorni / che mi spettano / le carte appese al petto / e una versione di riserva / per tutte le strofe / uscite male / e le frasi sbagliate / che nessuno / potrà più cancellare / io vi saluto / e mi inchino / io vi saluto / e pieno di rispetto / vi dico addio).

Se ho parlato molto di parole e poco di musica è perchè questo sono i Massimo Volume, ancora una volta, fotografia in movimento e gettata tra le strofe di una visione acuta quanto intensa dell'oggi moderno, di un senso di smarrimento che se negli anni novanta sembrava personale, ora suona quanto mai lucido.
E torniamo al brano iniziale, perchè questi versi (Vince chi resiste alla nausea / chi perde meno / chi non ha da perdere / vince chi resiste / alla tentazione / tentazione di evadere) sembrano quanto mai rivolti all'Italia del 2013.

martedì 15 ottobre 2013

[Live Report] Lightning Dust @ Zuni (Ferrara)


Zuni è una piccola isola felice tutta Ferrarese, che resiste anno dopo anno.
Un rettangolo dal lato maggiore molto lungo, mostre sulla parete a fianco, una (deliziosa) cucina e attività "culturali" varie, tra cui il concerto della domenica, una specie di rito locale, consumato a tarda ora aperitivo, che di solito coinvolge una solida quanto variegata clientela pronta a farsi lo spritz ascoltando apparentemente improbabili gruppi provenienti da ogni dove, quanto spesso proposte di qualità non indifferente nel piccolo palco posto in fondo al rettangolo.
Che l'atmosfera sia intima e raccolta lo dimostra il sempre divertente fatto che per andare in bagno si passa radenti davanti al pubblico, si sfiora chi sta suonando e si entra con discrezione a lato.
Insomma, un piccolo posto felice.

A volte queste proposte musicali si elevano della già buona qualità per piccole occasioni d'eccezione, quali, la scorsa serata, il concerto dei Lightning Dust, direttamente da Vancouver, Canada.
Ma prima due parole per l'apertura, le Lovecats, duo acustico di natali veneti, capace di intrattenere piacevolmente per una decina scarsa di pezzi, con il pregio di un miglioramento brano dopo brano: come detto alle ragazze, la canzone presentata come nuova è decisamente la migliore.
Se ci aggiungiamo un approccio al pubblico colloquiale alla (per esempio) Dente (che può piacere o farsi mal sopportare) ne esce un discreto voto di incoraggiamento.


Si arriva poi alla band padrona della serata.
Un ottimo live, quello del duo canadese (quartetto sul palco) formato da Amber Webber e Joshua Wells, gia membri dei più famosi Black Mountain.
Duo che ha raggiunto da poco il traguardo del terzo album e che mette in campo un buonissimo live, caratterizzato da un dream pop vicino in certi momenti alle atmosfere dei Beach House, con protagonista l'ottima voce della Webber (non lontana, ed è un complimento, dalle sonorità di Beth Gibbons, Portishead).
Batteria in gran parte elettronica, tastiere e una velocità di medio livello, con un paio di ballate semiacustiche che riescono forse a essere tra gli apici di un concerto piuttosto solido.
Promossi, insomma e sicuramente da recuperare anche su disco.


mercoledì 9 ottobre 2013

[Serie Tv] Homeland - Scorcio di stagione tre


Che Homeland sia una serie difficile da portare avanti, è evidente.
Non ha serialità, non c'è il caso del giorno, non ci sono nemmeno momenti tesi ad allungare il brodo.
In queste prime due puntate di stagione non c'è nemmeno Brody, una assenza che pure fa rumore, per tutto ciò che si svolge mentre è fuori dalla telecamera.
E se Homeland non si era mai preso tempo, coinvolgendoci sempre più in una spirale di azione e tensione, lo fa in un certo senso in queste prime due puntate.

L'attentato alla Cia ha lasciato dietro di sè una situazione completamente nuova: l'organizzazione indebolita, Carrie fuori dai giochi (e man mano colpevole), la famiglia di Brody completamente dissestata con Dana a tentare il suicidio.
Ancora: Saul che da guida morale diventa sempre più ambiguo e determinato a proteggere l'interesse superiore rispetto a quello di chi ama di più.
Se nella prima stagione ci chiedevamo se Brody fosse davvero un terrorista e se, nella seconda, eravamo trascinati in una rete di apparenti doppi e tripli giochi che in realtà mascheravano la difficoltà umana dello stesso a scegliere da che parte stare, nella terza stagione guardiamo dentro all'anima dei personaggi.
Un percorso difficile e sicuramente capace di fare perdere in parte il gradimento alla serie.
Quello che emerge, intanto è il parallelo tra Claire e Dana, che entrano in una spirale di follia (la prima sempre presente in passato, la seconda indotta dagli eventi) che pure sarebbe meglio definire di lucidità.
Perchè se il mondo le emargina (Carrie entra nel centro psichiatrico quando Dana ne esce) per la loro tendenza a fare o farsi del male, la realtà è che entrambe hanno compiuto un profondo percorso di domanda, di introspezione, di dolore personale, di delusioni per un mondo che ha cambiato faccia troppe volte.
E il personaggio che più guadagna punti è Dana, che abbiamo visto bambina e ora diventa adulta, pure morbosamente attaccata ad un ragazzo sicuramente problematico ma profondamente alla ricerca di risposte (alla sola e unica domanda: chi sono io e cosa mi rende felice).
Il vederla tastare il tappetino di Brody fa in un qualche modo rabbrividire e ci rende chiaro chi sarà l'elemento principale della stagione, pur senza togliere spazio a Carrie.

Claire Danes è ormai (e forse sarà per sempre) Carrie: instabile, ferita, alla ricerca spasmodica di verità e difesa in un mondo che le si rivolta contro, scegliendo la strada più semplice (Saul sembra volerci dire: non importa se troviamo i giusti colpevoli, importa che diciamo di avere trovato un colpevole e che va tutto bene).
Umanità che troviamo sorprendentemente in Quinn, forse pronto a diventare faro morale della serie (in Homeland c'è sempre qualcuno che lotta per la verità, solo che raramente è chi detiene il potere).

Dopo due puntate Homeland è la sede della Cia: c'è un cratere con grande vuoto (Brody) persone che continuano a lavorare dentro come se niente fosse (Saul, la moglie di Brody) altri che quel dentro se lo portano dentro (Carrie, Dana) e la sensazione che la ricostruzione sarà più dolorosa di quanto si pensi.


domenica 6 ottobre 2013

[Live Report] No Ceremony - Bastione Santa Croce, Padova


Chi scrive fa parte di chi ama, se possibile, inseguire le novità, cercare di cogliere i semi di un futuro grande artista (o gruppo).
Di quelle sere in cui, con poche decine di sconosciuti sotto il palco, vedi per la prima volta dal vivo una band che qualche anno dopo riempirà i palazzetti.
Futuro difficilmente auspicabile, intendiamoci, per i No Ceremony.

Che compiono un passo importante: dopo un percorso di singoli, apparizioni, esibizioni sotto una certa copertura, escono con il primo album e si presentano al pubblico.
Ne avevamo già parlato prima che tutto questo succedesse ed ecco il motivo per fare qualche chilometro, questa sera, fino ad arrivare alla curiosa location del Bastione Santa Croce di Padova, una specie di grotta, stretta e lunga, con un arco in alto e, ancora più curioso, un palco disposto leggermente in diagonale, tanto che, per una volta, essere sul lato destro o sinistro del palco rende ben diversa la visione.


Verso le 22, ad aprire ci sono i NYU, a quanto è dato capire, nuova formazione più o meno locale che si dedica ad un energico elettro pop. Pare il primo live della band sia datato fine luglio e quindi diamo una sentita promozione: l'attitudine c'è, manca un pò di varietà, ma fanno bene a crederci.

Un'oretta dopo, ecco sul palco i No Ceremony: svanisce in pochi istanti l'alone misterioso, rivelando un terzetto di età presumibile intorno ai 25 anni.
Il live: promosso con riserva.
La riserva sta in una scaletta da rivedere (il meglio è all'inizio) e in qualche suono (e voce) campionata di troppo.
La promozione sta in un live sentito, coraggioso nel non essere mera trasposizione di un album che pure è appena uscito, intenso nel essere molto più rumoroso di quanto ipotizzabile (qualche inquietante caduta di pietruzze davanti a noi dal fianco del bastione ne è testimone).
Si ballicchia e in qualche momento si giunge al fuoco dei No Ceremony, gruppo dalle grandi potenzialità quando indovina l'incrocio tra la digitalità dei suoni e l'animo del brano.
Si sta pensando a Heartbreaker, insuperato gioiellino firmato dal gruppo e presente nell'album.

Se la memoria non mi inganna, sono solo otto i brani suonati, per un live decisamente sotto all'ora, che pure non si fa dispiacere e non manca di farsi applaudire.
Ma è solo la prima pagina della carriera del gruppo e non vediamo l'ora di leggere il resto.


lunedì 30 settembre 2013

[Ascolti] Mgmt - Mgmt


Se un gruppo è capace di farti cambiare idea tre volte, allora il giudizio è difficile.
In poche parole, è nel 2007 che due ragazzi (Benjamin Goldwasser e Andrew Vanwyngarden) esordiscono, su una (giornalisticamente) apparente scia vicino alla nuova psichedelia americana, all'epoca capitanata dagli Animal Collective, con un disco: Orange Spectacular.
E quel disco ha una particolarità, di contenere un paio tra i singoli più illuminanti degli ultimi anni, Time To Pretend e (in particolare) Kids.
Instant Classic che ci si porterà dietro in ogni (buon) djset alternativo che si rispetti.
E' sulla base di quel successo che avviene un primo shock quando arriva il momento (2010) di Congratulation, disco che si svincola agilmente da ogni tentativo di successo commerciale, facendo più chiara la vera natura del duo del Connecticut.
Un disco che, diciamolo, è tra i più interessanti degli ultimi anni, muovendosi agilmente tra pop, rock, psichedelia, idee coraggiose quanto riuscite.
E per qualche motivo (non c'era da sperarlo) i consensi di critica e pubblico non diminuiscono (anzi le vendite aumentano leggermente).
Ora i nostri due ragazzi arrivano al vero momento difficile di ogni carriera discografica: il terzo disco.
Ormai trentenni, si giocano il titolo omonimo, che quasi sempre sta a dire "ecco il vero e definitivo suono della band".
Anticipato dal mediamente divertito e divertito singolo Your Life is a Lie, Mgmt è un disco che profuma enormemente di anni settanta, difficile (più dei dischi precedenti ancora) da assimilare e che assomiglia ad una jam session aperta, piena di idee, purtroppo però non sempre compiute.
Se si diceva del singolo, se si parla di una affascinante Introspection (dove siamo negli anni settanta, punto e basta ed infatti è una cover) o Plenty of Girls in The Sea, se si rimane a questi momenti, si ha l'impressione di una fotografia a fuoco, magari estrosa, magari non capace di raccogliere consensi unanimi, ma indubbiamente talentuosa.
Se invece ci si sofferma su altri esperimenti, come Astro-Manchy o I Life You Too, Death (purtroppo una di seguito all'altra) non si può che pensare che valeva la pena di soffermarsi su tempi maggiori e scartare qualcosa, per ritrovare la coesione dell'album precedente, qualitativamente tutto di altissimo livello.
Ma mettiamola così: se le idee non mancano e il desiderio di facile successo è definitivamente archiviato, viene da pensare che ci sia ancora spazio per un grande disco da parte dalla band.

giovedì 26 settembre 2013

[Ascolti] Kings Of Leon - Mechanical Bull


La storia (discografica) dei Kings of Leon pare quella di chi prende la patente.
Prova in incognito, esordisce sulle strade, inizia con un discreto timore e poi inizia a divertirsi davvero.
Ecco, Aka Shake Heartbreak era quel momento in cui abbiamo vent'anni, ci sentiamo sicuri di guidare e giriamo per le strade, leggermente (o un pò più di leggermente) sopra il limite, affrontando le curve in orari notturni o verso l'alba.
Insomma, un disco magari non storico ma piacevolissimo e soprattutto pieno di piccole grandi intuizioni.

Mechanical Bull invece è (un'altra) normalità.
E' il guidare di un trentenne che va solo al lavoro o a fare la spesa.
Guida con sicurezza, conosce ogni stratagemma, sa parcheggiare alla grande.
Ma manca il brivido.
Il sesto disco dei Kings Of Leon è, come i due precedenti (quelli di maggior successo, non a caso?) un raffinato prodotto di garage-rock, che viaggia tra i settanta e i gli ottanta orari, che riesce tanto a non avere pezzi disprezzabili (merito anche di una produzione al solito impeccabile) quando a non lasciarne in mente nemmeno uno dopo ripetuti ascolti (un più per Family Tree, se si deve).

Inutile pontificare, comunque, perchè il gruppo di Nashville (e curiosamente giunto tardi al successo in patria) riceveranno l'ennesimo attestato di stima da parte di un pubblico che ormai è quello dei palazzetti e delle grandi occasioni.
A qualcuno potrebbe bastare, per chi scrive è l'ennesima sufficienza stiracchiata per il mestiere (indubbio) ma la voglia di rispolverare l'antico "essere giovani e sbarazzini" non sarebbe disdicevole.


venerdì 20 settembre 2013

[Ascolti] Arctic Monkeys - AM


Pare strano ma è oggettivo: gli Arctic Monkeys sono arrivati al quinto album.
Insomma, sono grandi.
Alex Turner, che abbiamo imparato a conoscere quando non aveva vent'anni ora ne ha ventisette.
E il gruppo è indubbiamente una delle rock band più importanti del pianeta, per interesse e vendite.
Aggiungo: AM è per qualche motivo non chiaro (ma bene accetto) verosimilmente pronto a diventare il più grande successo commerciale del gruppo, se escludiamo le cifre difficilmente raggiungibili dell'esordio (che fu un disco generazionale).
Tutte queste premesse vengono scritte perchè nonostante molteplici ascolti, AM non mi è entrato particolarmente nel cuore.
Seppure, sicuramente, migliore di Suck It And See (quello si, un disco a mio parere appannato) AM ha risuonato (lo fa pure in questo momento) nelle mie orecchie senza lasciare una sensazione superiore alla piacevolezza.
Di fronte ai consensi più o meno generalizzati mi sono interrogato sulla questione.
E mi sono dato una risposta semplice: sta tutto nell'incipit.
Sono (il gruppo) diventati grandi e sono (io) diventato altrettanto adulto.
Si cambia insomma.
E il tutto è che questa sonorità di rock dall'importante suono americano, questa produzione più che robusta (quanto sembra vicina, a tratti, agli ultimi Black Keys) questa rilassatezza per un album che si stende, intenso, in un incedere senza strappi nè particolari rallentamenti, beh, mi piace meno dell'irruenta gioventù dimostrata nel primo (e secondo) disco.
Perchè, in fondo per il resto non si può negare che il disco abbia valore e soprattutto riesca a non avere cali qualitativi.
Per dire, addirittura la parte più interessante è nel finale, con la brillante Snap Out Of It (che sembrano quasi gli Spoon) la vicina a certe ritmiche hip-hop Knee Socks e la buona ballata I Wanna Be Yours.
E prima non ci si annoia particolarmente, solo emoziona meno che in passato.

Per chiudere: se si è in cerca di un buon album, vale l'ascolto, se si cercano le melodie assassine degli esordi, sarà una discreta delusione, se si vuole un disco intenso di chitarre, può essere uno dei dischi più belli di quest'anno.
Ad ognuno la sua posizione.

domenica 15 settembre 2013

[Ascolti] Okkervil River - The Silver Gymnasium


E' un pò (a sensazione) un ritorno alla nicchia, per gli Okkervil River.
Che pure sono (dovrebbero essere) una delle band più celebrate dell'indie rock statunitense e non solo, che pure hanno scritto alcuni album e pezzi incredibili, che pure dal vivo (a mia memoria, risalente ad un Estragon di qualche anno fa) danno l'impressione di essere una piccola famiglia appassionata di musica, intensa e divertente allo stesso tempo.
Però (a sensazione, ripeto) non hanno, almeno da questo lato dell'oceano, fatto il salto di qualità da buona band a piccolo culto (e c'è stato un momento in pareva potessero farlo, almeno a giudicare dalle attenzioni della stampa).
Fatto sta che non siamo più nel periodo dell'intimismo (Down The River of Golden Dream e The Black Sheep Boy) nè in quello della rilassatezza e dell'ottimismo (il più o meno doppio The Stand In / The Stage Names, provenienti dalle stesse sessioni).
A due anni dall'incerto I Am Very Far, la creatura di Will Sheff ci regala un nuovo disco, il settimo della ormai lunga carriera.
Un disco onesto, viene da dire.
Ci sono i pezzi riusciti (Down Down The Deep River ci ricorda i momenti più allegri della band) c'è più folk che in passato (Walking With Frankie) e un più che buon apice, non a caso primo estratto It Was My Season.
Ci sono i testi che nascondono un piccolo concept, un viaggio autobiografico nell'infanzia e nei luoghi di Will Sheff.
Ma nel complesso c'è un album da classica sufficienza o poco più, a seconda dei gusti.
Un disco che non riesce ad aggiungere niente alla carriera della band (se non un pugno di buoni momenti) ma pure è più a fuoco del precedente.
Vale la pena crederci ancora, insomma.

lunedì 9 settembre 2013

[Anticipazioni] Ci siamo: gli Arcade Fire sono tornati.



Ci sono ritorni importanti, ritorni interessanti e ritorni che non possono che interessare un piccolo popolo trasversale.
Il popolo degli Arcade Fire, ormai (nemmeno tanto) piccolo culto con la possibilità di diventare (per i media, perchè in realtà già lo sono) una delle più grande band capace di catalizzare attenzioni trasversali di un pubblico di ogni livello, questo popolo da oggi ha in mano la prima traccia dell'album in arrivo il 29 di Ottobre.
Basta andare sul sito https://www.justareflektor.com/  e divertirsi con il mouse ad vedere il video interattivo (tecnica non nuova per il gruppo) di Reflector, prima traccia del quarto disco della band canadese che ci regala un lungo brano (oltre sette minuti) ben riuscito e soprattutto dal suono diverso dai dischi precedenti.
Al classico duo alla voce tra Win e Reginè si aggiunge in sottofondo una grande prova ritmica che non può che far pensare al fatto che in cabina di produzione c'è nientemeno che James Murphy (Lcd Soundsystem).
L'inizio è ottimo, l'attesa inizia a salire.




venerdì 6 settembre 2013

[Letture] Il Fondamentalista Riluttante - Mohsin Hamid



Appena incrociato il titolo (ad onore del vero, si trattava del trailer della trasposizione cinematografica del film) il pensiero è stato immediato: uno dei più riusciti che io ricordi, un titolo di quelli che ti fanno comprare subito il libro appena visto.
In due parole, un mondo: il fondamentalismo, che ci evoca terrorismo, morte, sprezzo della propria vita per una causa migliore, assenza di una ideologia se non di quella della distruzione.
La seconda, riluttante, che ci fa pensare a indecisione, paura, senso di inadeguatezza, stasi.

Curioso quindi che l'unico (ma non piccolo, in fondo) difetto di questo secondo libro di Mohsin Hamid (Pakistano) sia quello di non esplodere mai.
Non è ovviamente (o forse si) un facile gioco di parole.
Il fondamentalista riluttante è Changhez, narratore lungo una conversazione con un interlocutore misterioso che non apre mai bocca (stile originale e ben gestito dall'autore) che svela man mano una storia di un giovane pakistano alle prese con l'alta società americana.
Non nel senso negativo: si parla di una borsa di studio, dell'approdo a Princeton (tra i migliori college al mondo) della prima esperienza lavorativa, di un amore difficile quanto intenso.
E', in altre parole, la storia di un viaggio e dell'immersione in una cultura diversa, con l'entusiasmo di una mente aperta e sveglia e con una scrittura di grande sensibilità.
Ci affascina, Changhez, come non manca di farlo Erica, suo grande amore alle prese con i propri demoni, percorso che man mano dovrà intraprendere anche il nostro protagonista.
E' un libro dove il nemico (apprezzabile scelta, a conferma del buon titolo) non è mai fuori, nei personaggi, ma solo nella loro interiorità.

E quindi dove sta il problema?
Solo nel finale, nella spirale ascendente di una trama che parte dal passato fino a raggiungere il presente, l'adesso della narrazione, la fine della conversazione con l'interlocutore e poi poche righe, di sottointeso, di apertura verso una conclusione solo abbozzata e in cui pare mancare qualche passaggio narrativo..

Verso la fine del libro Changhez dice "Vuole sapere cosa ho fatto esattamente per fermare gli Stati Uniti?".
L'autore sceglie di non dircelo fino in fondo (non dirò di più) e in fondo è un peccato, come quelle canzoni che senti che potevano salire ancora un pelo di intensità e non lo fanno.
Ma la sensazione rimane grazie anche alla piacevolissima lettura precedente e quindi, rimane consigliata.

venerdì 30 agosto 2013

[Ascolti] Kveikur - Sigur Ròs


A posteriori, possiamo dirlo.
Valtari, per i Sigur Ròs è stata una prova.
Mai il gruppo islandese aveva fatto uscire due dischi in un anno.
E mai come prima di Valtari c'era stato il dubbio che per la band i giochi fossero ormai finiti.
Un ultimo album non indimenticabile datato 2008, gli esperimenti solisti di Jonsi,  una carriera ormai lunga e densa di (insospettabili) soddisfazioni.
A voler essere negativi, quel disco poteva essere un discreto insieme di b-sides, esperimenti, prove pubbliche di rimanere insieme e godere di un tour che era stato il più trionfale (numericamente) di sempre, con folle di pubblico vecchio e nuovo a riempire luoghi perfino troppo grandi per una band di piccolo culto fino a pochi anni prima.

E invece no.
Kveikur, che ci porta un assestamento nella formazione dopo l'addio, ad inizio 2013 di Kjartan Sveinsson, è il grande ritorno della band e probabilmente uno dei migliori dischi della stessa, solo di un soffio sotto ai due capolavori del gruppo, Agaetis Byrjun e ( ) .
Nonchè un disco coraggioso, come dimostra la monolitica apertura di Brennistein, pezzo intenso, con un muro di chitarra e batteria a inondare le orecchie dell'ascoltare come raramente Jonsi e compagni avevano osato fare.
Niente più campanelli e suoni colorati alla Takk, per questo inizio e per la successiva Hrafntinna, riportandoci nei territori post-rock delle origini.

La fine dei Sigur Ròs pop? (se questa definizione può avere un senso).
Si e no.
Perchè c'è anche spazio per luce e melodie memorabili come Isjaki, dove l'atmosfera torna sognante come un tempo e come in Stormur, questa si, canzone destinata a trovare spazio in colonne sonore e video musicali grazie ad un meraviglioso giro di piano (e ci riporta a tempi, vedi la traccia tre del disco senza titolo, dove bastava un giro di pianoforte a fare un brano indimenticabile).
Ci si muove su questi due territori (dolcezza e aggressività) fino in fondo, con uno spazio finora mai così grande riservato a Orri Dirason che sfoga tutta la creatività alla batteria (ottima Blapadur).

Kveikur è un disco energico, che spazza via l'idea di una band minimalista e ci consegna una band intensa, fieramente rock, vogliosa di stupire ed emozionare come un tempo.
E allora bentornati.

giovedì 22 agosto 2013

[Ascolti] Franz Ferdinand - Right Thoughts, Right Words, Right Action


Che alla fine (non del tutto) a sorpresa siano i Franz Ferdinand a essere rimasti gli unici, legittimi a capo di quel movimento di inizio secolo, tutto chitarre da ballare?
Quella seconda ondata indie rock, capitanati (a livello mediatico) da Strokes (poi mai più ai livelli del primo) Bloc Party (idem, ormai sciolti) Interpol (in netto declino) e Arctic Monkeys (ancora in auge ma decisamente diversi nel suono dagli esordi).
Di quando ballavamo inni rock che uscivano ogni settimana (quante meteore dal singolo indovinatissimo) sfidando i non cultori a starsene fermi su certi brani?
Sono passati ben nove anni da quella Take Me Out e siamo ora arrivati al quarto capitolo della discografia del quartetto di Glasgow.
E diciamolo subito con una certa serenità, per la quarta volta i nostri riescono a fare il loro mestiere: regalarci una manciata di brani sereni, perfetti nel loro minutaggio di tre o quattro minuti, alternare alcuni pezzi sincopati con le inevitabili ballate in odore di sixties.
Non cambiano (se non poco) ma se ci sono i pezzi, che possiamo dire?
Che possiamo dire ad esempio della prima metà disco: Right Action è un inno da dancefloor nel giro di 10 secondi, Evil Eye ci riporta direttamente ai fasti del primo disco con il suo incedere funkeggiante, Love Illumination è un altro singolo per direttissima.
Ancora Stand Of The Horizon, un pò anni settanta nella melodia e poi la beatlesiana Fresh Strawberries a farci tirare il fiato.
Leggermente meno ispirata (ma leggermente) la seconda parte: all'irrestibile Brief Encounters fa da contrasto una poco ispirata Bullets e il duo Treason!Animals e The Universe Expanders appare meno memorabile, con una ripresa nel finale, con la dolce Goodbye Lovers And Friends, dove Kapranos ci saluta "goodbye lovers and friends/ so sad to leave you [..]  but this really is the end".

Il fatto che si sia affrontato ogni brano è indice positivo: un disco fresco, della giusta durata e per almeno tre quarti riuscitissimo: dunque, si, alla nostra domanda iniziale.
I Franz Ferdinand sono ancora vitali, in forma e noi non vediamo l'ora di ballarli nuovamente.

mercoledì 21 agosto 2013

[Ascolti] Emika - Dva


E' un peccato, questo Dva.
Che pure, è vero, giunge in un qualche modo fuori tempo (senza colpe).
Uscendo in estate e uscendo quando ormai la rivoluzione dubstep è stata assorbita da tutti.
Così, il secondo disco della nostra Ema Jolly, inglese (Bristol, non una città a caso) trapiantata a Berlino (non una città a caso) capace nel suo esordio di fondere meravigliosamente il trip-hop dei Massive Attack più oscuri con influenze techno, in un disco sensuale e pieno di ottime idee, così il secondo disco, si diceva, arriva dopo due intensi anni di lavoro tutto (o quasi) personale.
E si vede l'ingenuità della giovinezza, innanzitutto nel minutaggio, quindici tracce.
Emika prova a diventare grande, a cambiare, ad ampliare il proprio spettro sensoriale.
Ci riesce a tratti e ad essere onesti ci riesce quando fa quello che fa meglio: Filters, ad esempio iniziale, ritmata, con un decadente piano a ribattere un basso a tracciare la melodia, è un brano riuscito e fa ben sperare.
Cosa che vale pure per Young Minds, prima traccia dopo uno strano interludio orchestrale con tanto di ospite dalla voce intensa, che ci ricorda tutte le cose belle del primo disco.
Un pò troppo solare, invece Wicked Game (cover del famoso brano di  Chris Isaac) così come semplicemente malriuscita Centuries, alla fine del disco.
Dva è un disco che si snoda con difficoltà traccia dopo traccia, lasciando occasionali lampi (Primary Colours, ballata riuscitissima), lasciando nella orecchie una produzione ruvida quando avvolgente.
Senza però, purtroppo, diventare (nemmeno dopo molti ascolti) molto più di un piacevole ascolto.
Qualche traccia in meno e un diverso approfondimento del percorso musicale avrebbero giovato, ma l'età della nostra è bassa (classe 86) e da queste parti, ci si crede ancora.



venerdì 16 agosto 2013

[Ascolti] Kodaline - A Perfect World


Ci sono alcuni concerti, non tanti a dire la verità, che hanno un piccolo rituale: il gruppo canta un pezzo di grande presa, il pubblico ne canta il motivo principale, con partecipazione, continuando a farlo anche una volta finito il brano
La prima volta che mi successe fu al concerto degli Arcade Fire a Ferrara, quando prima dei bis ci fu Rebellion e per qualche interminabile (e bellissimo) minuto sembrava che cinquemila persone non potessero smettere di cantare quel ritornello.
Il gruppo ritornò in scena, sorridente, riprendendo per qualche momento il brano, prima di passare al successivo.

Qualche anno e decine di concerti dopo, l'evento (che come tutte le prime volte mi è rimasto nella memoria) è diventato normale (quasi) pur rimanendo nella mia mente come uno dei momenti più intensi che un live possa portare con sè: invece dei classici, scontati, applausi o richieste di bis, è il pubblico a farsi band, per un attimo, nell'omaggio più importante che possa portare.

Ecco, partendo da qui, arriviamo ai Kodaline, gruppo sconosciuto prima di essere incontrato live al Longitude Festival di Dublino.
Prima di un discretamente convincente live finito sulle note di "All I Want" cantata in coro da buona parte di un pubblico ancora pomeridiano quanto coinvolto e partecipe.
Così: All I Want, brano che in sè non è nemmeno indimenticabile se non fosse che (forse per averlo vissuto live in una così bella cornice) non ti stacca addosso, con la sua malinconia, l'epicità controllata e fortunatamente mai lasciata scorrere fino in fondo.
Subito dopo, nel disco Love Like This, decisamente dalle parti dei Mumford And Sons più allegri, probabilmente futuro singolo capace di mantenere quel buon successo in terra Irlandese e Inglese.
Un disco che è il primo per questo Kodaline, che pure esordienti non sono, frutto di una vera e propria operazione di re-brand, essendo lo stesso (o quasi) gruppo che portava il nome di 21 Demands, di discreto successo nella terra d'origine nel 2007.
Ancora subito dopo c'è High Hopes, un brano che pare uscito dalla penna (quando in giornata, prima degli ultimi esperimenti) di Chris Martin dei Coldplay.

Pazienza se poi il resto del disco, leggermente troppo lungo, si mantiene su coordinate più normali, con un onesto guitar rock ben suonato, capace di muoversi agilmente sulle coordinate dei nomi già nominati.
Se però, un disco così, è capace di essere suonato con una certa freschezza, perizia in suono e produzione, diventa giusto rendere il merito ad un'opera piacevole e con una certa propensione al riascolto, fosse anche solo di alcuni brani particolarmente riusciti.

Insomma: senza strapparsi i capelli, A Perfect World è un disco con tutti i crismi e merita l'ascolto.
Questa estate, Kodaline, uno spazio in playlist per voi c'è.

domenica 11 agosto 2013

[Ascolti] Washed Out - Paracosm




Sono passati un paio di anni dal primo, acclamato, disco di Ernest Green, in arte Washed Out.
Un gran bel disco, quel Within And Without, capace di muovere elettronica, trip hop e una tendenza chillwave (etichetta in cui il nostro si è ritrovato inserito a suo malgrado) in una formula magari non innovativa ma indubbiamente efficace.
Era stato, il disco giusto al momento giusto: esattamente il periodo giusto per un suono dilatato e coinvolgente (solo pochi mesi prima James Blake era entrato in scena con il primo disco) e una certa attitudine estiva ce l'aveva fatto apprezzare non poco.

Senza fare troppe contestualizzazioni (senza dire insomma come pare ci sia parecchia meno attesa a livello di stampa) veniamo all'ascolto di Paracosm.
Dicendo subito che la ricetta non è cambiata.
Pure se il suono è più caldo, maggiormente suonato (ed è questa la teorica grande differenza professata dall'autore, passare dalle macchine ai suoni reali di chitarre e batteria) l'attitudine non cambia molto.
Difficile dire che si balli, ma ci si accompagna con gradevolezza in un disco per fortuna non troppo corposo (8 brani ed una introduzione) e che viaggia a media frequenze, senza particolari vette ma nemmeno cali di qualità degni di nota.
Piuttosto piacevoli All I Know, brano di facile accesso che mette in chiaro tutte le abilità melodiche di Green, e  It All Feels Alright, primo singolo (previsione: sottofondo per programma televisivo / pubblicità entro fine anno).
Certo, se la velocità si riduce troppo l'impressione è emergano alcune difficoltà (Paracosm) ma, come nel precedente album, è più che riuscito anche il corpo di coda finale, con la dolce  All Over Now, che non è una A Dedication, ma non manca di farsi amare.
Insomma, l'idea è di un album riuscito, piacevole, anche se forse un pò incolore, indeciso, incapace soprattutto si tracciare una idea diversa dalla sonorità impostata nel primo disco.
Ma per ora, ci facciamo bastare un pugno di buonissimi momenti.


Propaganda - Stagione 2, Episodio 3

La puntata numero tre di questa stagione è stata densa di musica. Musica e novità e qualche parola nel mezzo, per presentarla e raccontarla...