Scelgo di recensire, o meglio di trattare riguardo a House
Of Cards poco prima di vedere la puntata che ne conclude la prima stagione.
E’ una scelta consapevole, per avere in comune con
l’eventuale lettore ignaro un telo nero a nascondere il probabilmente
emozionante finale che finale non potrà essere.
Forse, quando arriverà in Italia, House Of Cards verrà
trattata come una qualunque serie televisiva.
Cosa che non è, o meglio non del tutto, essendo la prima
produzione originale ad ampio budget (100milioni di dollari!) di Netflix,
gigante dello streaming americano che quindi non solo fa uscire la serialità
dalla televisione ma addirittura rende la serie subito disponibile, completa di
tredici episodi vicini all’ora di durata.
Niente slot di ascolti, niente rating di pubblico, niente
pause/premiere/finali di stagioni, tutto è lì, da un giorno all’altro, come fu
per In Rainbows dei Radiohead.
Ma questa è analisi del come, mentre qui si vuol parlare del
cosa.
E cosa è House of Cards?
Non è, se non in minima parte, il palcoscenico di definitivo
pareggio (sorpasso?) della televisione sul cinema, con episodi diretti da David
Fincher e Joel Schumacher e soprattutto da una gigantesca interpretazione di
Kevin Spacey.
House of Cards è un attualissimo (e violentissimo, in questo
senso) sguardo all’oggi, all’etica dell’oggi.
Di più: è un viaggio infernale nella mancanza di valori
dell’oggi.
Non con quell’autocompiacimento, quella cosa un po’
Movimento 5 Stelle “Fa tutto schifo, cambiamo tutto” no, qui c’è il “così vanno
le cose qui.”
Ambientata tra politica e società, tra Casa Bianca e
incursioni domestiche, la serie narra fondamentalmente del lungo percorso di
Frank Underwood (Spacey) dalla mancata nomina di segretario di stato in poi.
Non sappiamo molto del prima.
Dopo, però, con spietato realismo seguiamo la silenziosa
vendetta di Frank, nella riconquista del potere.
Ed è il potere il percorso affrontato puntata per puntata.
Potere di carica, potere per età, potere per seduzione,
potere per interesse.
Assoluzioni: nessuna.
Non è assolta Zoe, affascinante giornalista che imbastisce
un gioco tra seduzione e interesse lavorativo con Frank, perdendo ogni
brandello di stima per sé stessa e del lavoro che fa.
Non è assolto Peter Russo, rampante candidato ex (?)
alcolizzato, sfruttato da Underwood per una gloria immeritata e che quando,
però, prende coscienza di sé e sembra diventare uomo, fallisce la prova più
semplice, in apparenza (quella d’amore) rovinando sé stesso e la propria
carriera fino ad una spirale di autodistruzione.
Non sono assolti i vari politici, mostrati deboli,
ricattabili o ricattatori, né i giornalisti,l’opposto di quelli di The
Newsroom, qui arrivisti, faziosi o almeno disinteressati alla morale di quello
che fanno.
Non lo è, infine, nemmeno Claire, moglie di Underwood, in apparenza
comprensiva, dura quanto basta, vicina al marito e poi invece, anche lei,
infedele, infelice, non meno inaffidabile.
Non a caso non ci
sono bambini, in tredici ore di sceneggiatura, se non di sfuggita i figli di
Russo.
Tranne forse lei, Zoe, a cui Francis chiede di chiamare il
padre nel giorno della ricorrenza, e che chiude la telefonata tra i gemiti del
sesso orale che lui le pratica, mentre lei risponde “ma tu non hai figli” e
lui, diabolico, sussurra “davvero non ne ho?” prima di ributtarsi sul suo
corpo.
E non lo puoi ammirare, Underwood, si incisivo, efficace,
oratore,scaltro, si tutto questo ma quanta oscurità si muove in lui?
Interpretato sontuosamente da Spacey, Frank Underwood,
spiega, alla telecamera, in un meraviglioso gioco meta-televisivo, le
macchinazioni, i personaggi, la sua filosofia di vita.
A volte, dopo una frase importante, giro il ghigno verso la
telecamera, solo un’occhiata, parla a te, spettatore, rendendo forse mai come
prima d’ora protagonista aggiunto, complice e per questo, puntata dopo puntata,
ti si conficca nel petto, con tutta la sua tragica violenza, (quasi) sempre celebrale, spesso disumana.
E’, House of Cards, uno degli show più realistici mai
scritti, mostrandoci una politica di compromessi, di favori, le necessarie
utilità di comodi, raccontandoci (vedi Girls) delle disfunzioni dei sentimenti
in una società aliena che spazza via tutto, dove in basso si chiede giustizia e
lavoro e in alto si sogna potere, tanto potere.
Uno sguardo che fa male, ma è necessario.
In un’epoca fatta spesso di personaggi televisivi malvagi ma
affascinanti e con moralità diverse (Dexter? Benjamin Linus di Lost?) in questo
torbido non c’è risalita, luce, sogno, innocenza.
E quindi, si, ferisce , House of Cards, proprio come la
realtà, proprio come lo sguardo tagliente di Frank, rivolto a te spettatore.
Ma non guardarlo sarebbe chiudere gli occhi verso un mondo.
Il nostro.
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