mercoledì 30 luglio 2014

[Ascolti] Kasabian - 48:13


Il fatto che io arrivi a scrivere questa recensione quasi due mesi dopo l'uscita del disco, è un chiaro indice di una diffidenza cresciuta col tempo. Se una persona che ami ti fa del male, per un pò cerchi di non vederla, non sentirla.
Uscendo dai drammi, qui siamo un pò in quella condizione, o meglio ad una sensazione rivelatasi corretta.
Fosse un grafico, i Kasabian sarebbero un punto alto (l'omonimo debutto) una retta costante (il particolare ma per molti versi riuscito Empire) e un'ulteriore crescita con West Ryder Pauper Lunatic Asylium. Quello era il momento della band di Leicester, la vetta creativa di una band che è riuscita ad inquadrare, almeno per un pò, una perfetta fusione tra rock, pop ed elettronica, azzeccando pure quei singoli capaci di imporre il nome in circuiti ben più estesi della sezione indie-rock in cui, giustamente, nel 2004 (l'anno dei Franz Ferdinand, per dire) furono inseriti.

Poi quel Velociraptor, acquistato in Scozia con una certa attesa durante una vacanza (usciva in quei giorni) che pure, sì, includeva ancora bei momenti, ma tradiva, per la prima volta un certo mestiere, una latitante creatività.
Onesto, ma nulla di più.
Per assurdo, poi, fu l'album di maggiore successo della band, secondo quei meccanismi imperscrutabili del mercato discografico (e non potevamo, noi Italiani, non essere in prima linea nell'appassionarci ad una band in apparente declino).

Rimanevano due possibilità. Che 48:13 fosse una nuova svolta, o la conferma di una discesa.
Facile intuire come il risultato sia il secondo.
Potranno essere anche un nome ormai mainstream (chi ha detto Muse alzi la mano) ma è innegabile che questo album che prende il nome dalla durata del disco sia nulla più di una fredda conferma di un mestiere che pure esiste, nel dare alle stampe un album che non mancherà di essere godibile, ma non aggiunge nulla alla carriera del gruppo.
Anzi, lascia in eredità qualche pezzo che pare una discreta bside degli esordi (Treat, pure uno degli episodi migliori), il consueto singolone da radio (Eez-Eh) che funziona solo in ottica da club inglese e non brilla certo di meriti propri; ben tre intermezzi  strumentali di sostanziale inutilità.
Funzionano poco i lenti, da sempre marchio di fabbrica della band tra le scariche elettriche della scaletta (Explodes è incerta e fuori fuoco) e soprattutto la sensazione è di un suono appiattito e molto meno coraggioso che in passato, che mira alla consueta epicità ma senza prendersi nessuno dei rischi che avevano regalato soddisfazioni nei dischi precedenti.
Così, più che la conclusiva, un pò beatlesiana S.P.S. ci si trova a dover più o meno salvare Bumbletees, prossimo singolo destinato a piacere al popolo di Virgin Radio, ma che a pensarci è un tornare indietro a quella LSF che ce li aveva fatti conoscere.
E non ci pensi ad un complimento.

Al prossimo album l'ardua sentenza, per capire se la band meriterà ancora tempo e spazio o un definitivo, amichevole, "ciao, è stato bello".



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