lunedì 11 agosto 2014

[Ascolti] Spoon - They Want My Soul


Appena inizia Rent I Pay, prima traccia di questo ottavo disco degli Spoon viene la voglia (notata in diverse recensioni sul web) di inserire, a priori, una piccola invettiva a favore di una band che più di altre (ben più) celebrate band ha scritto pagine importanti nella musica di questi anni.
Soprattutto, con una costanza qualitativa e di coerenza artistica rari in una band che, ridendo e scherzando si avvicina ai vent'anni di carriera.

Il motivo per cui il gruppo capitanato da Britt Daniel non ha raggiunto status da band di culto sta in un insieme di fattori: la mancanza del singolo decisivo, una genere che si presta più all'ascolto intelligente che al ballo o al coro da stadio, un'immagine inesistente o quasi al di fuori della band, un insieme insomma di anti personaggi da copertina.
Tutti fattori che hanno portato molti di noi, che scriviamo, e di voi, che leggete, ad amare gli Spoon e parlarne pure pochissimo.

Per me, poi, parliamo di una storia ancor più particolare.
Tolti i primi due concerti (Subsonica, un pò prima dei peli sulla barba) e del primo evento (Radiohead, a Ferrara, poco prima o dopo della maturità) il primo concerto, visto in solitaria, fu al glorioso Vox di Nonantola, che ospitava i rampanti Interpol; che si portavano dietro in tour questi misteriosi Spoon, che avevano appena dato alle stampe Gimme Fiction.
E per quanto mi piacerebbe raccontare di un amore istintivo, ammetto un pò di confusione di fronte a questa band (all'epoca ancora pensavo che le band di supporto fossero una perdita di tempo) e al suo rock indecifrabile.

Perchè, e siamo a They Want My Soul, è da ammettere che dietro la pure apparente semplicità del suono della band, c'è un complesso lavoro di intrecci, di chitarre, di ritmi alla batteria mai banali, di melodie che evolvono, si rincorrono, mutano.
E così anche un disco che all'interno del percorso della band si inserisce in un percorso di consolidamento (non è un momento di sperimentazione insomma) non si può non apprezzare la solarità del primo singolo "Do You" (in un mondo alternativo, una hit estiva), le leggere influenze elettroniche di "Outlier", la sfrontatezza di "Let Me Be Mine" che dura quasi troppo poco per quanto piace.
E soprattutto non si può non ammirare un'ennesimo album fatto di canzoni, dieci, per minuti, trentasette, in cui non vi sono cali di ispirazione, riempitivi, indecisioni.

Un pugno di brani, aperto, se n'è già parlato da Rent I Pay, che in trenta secondi circa inserisce, nell'ordine, batteria, chitarra, seconda chitarra e voce e fa capire, senza dubbio alcuni, che l'abbondante pausa (quattro anni e mezzo) dal precedente disco, non hanno tolto niente ad una delle migliori band contemporanee.
E che ancora una volta è un piacere ascoltare.

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